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Intervista al Dottorcosta: «Senza dolore non c’è vita. La pulsione di salvare Duke nacque da una trasgressione»

In questa intervista al dottorcosta abbiamo toccato temi importanti; dalla sua gioventù fino alle nuove generazioni.

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Il dottorcosta insieme a Mick Doohan e Marco Melandri ( © IsolaPress)

L’intervista al dottorcosta è un viaggio attraverso le emozioni di un’icona che ha scritto la storia delle due ruote. La sicurezza per i piloti negli autodromi non sarebbe la stessa senza di lui, sì forse simile, ma le gesta di Claudio Costa hanno salvato vite e segnato intere generazioni.

Una lunga e profonda chiacchierata che inizia così: «L’anima è una biblioteca che contiene l’esperienza di tutta una vita. É un dono che ci viene fatto per sopperire alla mancanza di istinti, che invece hanno gli animali. L’uomo essendone privo ha invece l’anima che raccoglie tutto ciò che in vita ci è riuscito o meno».

Un percorso che inizia da lontano

Dove tutto è iniziato?

«Mentre mia mamma mi nutriva con il latte, mio padre mi ha portato nel mondo mitologico del motociclismo dove i piloti sono diventati i miei eroi, i miei più cari amici. I piloti a quei tempi, quando io ero bambino, morivano e io piangevo ogni qualvolta succedeva. Allora provavo ad immaginarmeli mentre erano qui e frequentavano questa casa e mi sorridevano. Eppure non bastava».

«In quella tempesta di tristezza e lacrime per fortuna è nata un’emozione; l’empatia. Io la considero la principessa delle emozioni. L’empatia è quella forza che usiamo nel voler prendere il dolore degli altri sulle nostre spalle. Così ho portato il rianimatore in pista, un medico che sul luogo dell’incidente poteva salvare una vita in procinto di andarsene. Con questa scoperta ho salvato molte vite e reso felice molte famiglie».

«Mi ricordo quando a Imola salvammo la vita a Graziano Rossi, la mamma Stefania stringeva Valentino, piccolissimo, ai box. Quando abbiamo salvato la vita ad Uncini o quando Virginio Ferrari si è visto arrivare le balle di paglia del Tamburello verso di lui e ha sentito il suo cuore fermarsi. Lì l’ho salvato e il giorno dopo arrivò secondo dietro Roberts. Ecco da tragedie come queste è nato ciò che ho inventato io. Dalla tragedia è nato il bello».

Si è mai chiesto come potesse essere la storia del mondo delle corse senza la sua intuizione di portare il soccorso a bordo pista?

«Ci saremmo arrivati lo stesso; magari più tardi ma il soccorso in pista sarebbe stato inventato lo stesso. Quando hai un’ intuizione non è detto che non ci sia qualcun altro con le tue stesse capacità a cui venga. Considerando la frequenza delle tragedie nelle corse motoristiche, si sarebbe arrivati alle necessità di avere un medico a bordo pista pronto a soccorrere i piloti. Naturalmente chi arriva prima, fa la storia».

Una generazione non educata alle emozioni

Lei che è un uomo con moltissima esperienza e cultura, come vede e vive lei il cambiamento che sta affrontando il mondo e come vede le nuove generazioni?

«Oggi i giovani stanno male. In primis perché hanno un futuro che li minaccia. I giovani non vedono una bellezza nel futuro, che in realtà li inquieta. In secondo luogo oggi i giovani non sono educati all’emozione, a differenza delle vecchie generazioni. La mancanza di emozione si traduce nell’apatia. Dall’apatia ad arrivare alla psicopatia il passo è piccolissimo. Dalla psicopatia ad arrivare alla sociopatia, il passo è ancora più breve».

«Quindi i ragazzi non educati nelle loro emozioni hanno un vuoto esistenziale con un futuro dal quale si sentono minacciati e questo gli crea una rabbia e una violenza tale che poi si manifesta in tutte quelle azioni brutali che si vedono al telegiornale. Il perché non è difficile da trovare; la mancata educazione nella famiglia o nella scuola, che istruisce e non educa e la mancanza di comprensione della società creano questa condizione per cui nascono la rabbia e la violenza con cui conviviamo tutti i giorni».

Intervista al dottorcosta: impulsi e ricordi

L’impulso di salvare Geoffrey Duke e il rischio corso per salvare la vita a Doohan. Cosa l’ha spinta a compiere quei gesti?

«Quella pulsione nacque da una trasgressione. Io ero sempre ai box sotto l’occhio vigile di mio padre, lì dove potevo fare le foto con i miei idoli, abbracciarli, vederli da vicino. Vivevo un sogno, ma io volevo vederli da più vicino ancora. Allora andai alle Acque Minerali dove c’era tutta la folla, nascondendomi dietro un pino. Dopo qualche giro cadde Duke e io non ho pensato, ma ho agito».

«Sono saltato in pista per trarre in salvo il pilota ferito e dopo sono rientrato in pista per togliere di mezzo la moto. Ogni tanto sono tornato da quel pino, che è diventato un mio amico, perché all’epoca mi proteggeva. A quel pino raccontai come un fotografo aveva immortalato l’attimo del mio soccorso e tale scatto era poi finito su tutti i giornali. Mio padre quando lo vide mi sgridò, ma di fronte al mio pianto, credendo di averlo deluso, lui mi abbracciò e mi disse che quello sarebbe stato ciò che avrei fatto per tutta la vita».

«L’episodio di Doohan è stato più frutto di alcuni avvenimenti che mi portarono a prendere una decisione sulla quale incise anche la ragione. Dopo la frattura che riportò ad Assen io lo avrei operato in Italia, come feci con Gramigni tempo prima e poi lui vinse il mondiale. Quella dell’australiano era una frattura anche meno difficile di quella di Gramigni, lui scelse però di farsi operare in Olanda per guadagnare dei giorni. Successivamente sono sopraggiunte delle complicazioni che misero a rischio la vita del pilota».

«Doohan mi chiamò e io decisi di portarlo via dall’Olanda per portarlo in Italia. Vedendomi passare tra le sale dell’ospedale, anche Schwantz, ricoverato per una lussazione dell’anca e la rottura del polso, volle venire con me e Mick».

Nella vita lei è abituato a curare il dolore e farlo sparire. Ma lei che rapporto ha con la sofferenza e il dolore?

«Il dolore è un amico. Credo che se non ci fosse il dolore, non esisterebbe la vita. Il dolore è un campanello, una sentinella, un guardiano per noi. Io cercavo di aiutare il pilota a diventare amico del dolore. Facevo sì che non vedessero il dolore come un nemico ma come un bastone con il quale camminare sul sentiero del coraggio. Questo lo dimostra il fatto che in 50 anni i piloti feriti poi siano andati più forti di quelli sani, perché i piloti feriti potevano contare su un alleato in più».

L’autodromo di Imola oggi è amato da moltissimi piloti sia nelle quattro che nelle due ruote. Secondo lei perché?

«Imola è un circuito misto. É un circuito che ha perso il fascino che aveva alla nascita. Nella sua crescita ha migliorato la sicurezza, gli spazi di fuga e ha perso di conseguenza quella caratteristica per la quale lo denominavano “il piccolo Nürburgring”. Imola è come una donna che vive del suo fascino passato. Imola rappresenta l’opportunità di essere nel luogo in cui sono avvenute moltissime imprese motoristiche. É un circuito storico, quasi mitologico».

Le due scomparse del Team Gresini; Kato e il Sic. Lei che personifica la morte come “La signora vestita di nero” come si spiega il suo “accanimento” sul team di Fausto?

«Non credo ad una predestinazione nelle cose. Purtroppo sono due tragedie capitate a due piloti che portavano i colori di Fausto, che era un mio caro amico. Kato quando ebbe l’incidente in Giappone io riuscì a rianimarlo nonostante fosse già considerato deceduto. Riuscì a fargli ripartire il cuore, che batté per altre due settimane prima che il pilota andasse in cielo; quando i ciliegi iniziarono la stagione della fioritura nel paese del sol levante».

«Marco era uno di noi, un ragazzo pieno di vita. Fin da piccolo voleva correre in moto, vincere e andare sul podio. Dopo la sua morte io andai a casa Simoncelli per conoscere meglio la sua storia attraverso i suoi ricordi. In un quaderno trovai scritto “Io diventerò Vord Champion”. Traguardo raggiunto vincendo con la Gilera nel 2008 in 250cc».

Pensa che oggi l’approccio dei piloti alle corse sia cambiato rispetto al passato?

«I piloti della MotoGP di oggi li conosco molto poco, ma conoscendo anche la figura del pilota e da quello che si evince da questa intervista, si può dire che ognuno di loro sfida una figura interiore, non gareggia per il premio, per la classifica o per il denaro. Questa figura interiore è La signora vestita di nero ed è per questo che ogni pilota quando cade, a meno di infortuni seri, corre subito a cercare la sua moto per continuare questa sfida infinita. É un meccanismo psicologico che spinge il pilota a scendere in pista e a salire in sella».

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